Melanconia, scienza e postmodernità

Andrea Scavolini

Melanconia, scienza e postmodernità | Andrea

Una lettura della depressione uscendo dalle diatribe della “grande dicotomia fondamentale”, che vorrebbe il prevalere del presupposto cerebrale o del modello psicodinamico.


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Sinossi

La depressione nella prima metà del XX secolo non disponeva di una definizione condivisa e non era altro che una sindrome associata a molte malattie mentali; qualche decade più avanti, grazie all’introduzione dei manuali standardizzati, la psichiatria dimostrò che si trattava del disturbo mentale più diffuso al mondo. Tuttavia, la categoria dei disturbi depressivi ci appare oggi come un “ombrello” nosografico che racchiude al suo interno una grandissima varietà di esperienze molto diverse tra loro. Alla luce dell’attuale crisi nosografica, questo lavoro ambisce dunque a fornire una lettura pluralista della melanconia intesa come patologia depressiva, pur nella sua ambivalenza spesso rintracciata nella sensibilità artistico-culturale dei grandi artisti o pensatori, tentando però di evitare per quanto possibile il termine “depressione” (che ha ormai perso quasi ogni significato clinico) e uscendo dalle diatribe della cosiddetta “grande dicotomia fondamentale”, che vorrebbe il prevalere del presupposto cerebrale da un lato o del modello psicodinamico dall’altro.

Anteprima

Introduzione

Negli anni Novanta l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) predisse che entro il 2020 i disturbi depressivi si sarebbero imposti come la seconda principale causa di disabilità nel mondo. Già nel 2010 la previsione si rivelò accurata in base ai dati raccolti con il Global Burden of Disease Study, che mostrò un impatto globale del disagio mentale causato dalla depressione cresciuto di circa il 40% in soli vent’anni. Si è stimato che il Disturbo depressivo maggiore arrivi a rappresentare quasi il 10% degli anni vissuti con disabilità a livello mondiale (Epifani, 2016, p. 125). La depressione negli anni Quaranta non era altro che una sindrome associata a molte malattie mentali; tre decadi più avanti, la psichiatria dimostrò che si trattava del disturbo mentale più diffuso al mondo. Nei nostri giorni, i vissuti depressivi hanno raggiunto una diffusione tale che la si ritiene responsabile della maggior parte delle difficoltà che incontriamo nella vita quotidiana: tristezza, stanchezza, inibizione, insonnia, ansia, sarebbero tutte causate da questa disagio psichico, che assume le sembianze di un’epidemia se diagnosticata secondo i criteri del DSM-5 (APA, 2013). Ma chiunque consulti la letteratura psichiatrica e psicoanalitica si renderà subito conto di una costante: la difficolta nell’elaborare e definire una teoria unitaria della depressione. Oggi, la categoria dei disturbi depressivi ci appare infatti come un “ombrello” nosografico che racchiude al suo interno una grandissima varietà di esperienze.
L’adozione a livello planetario di criteri diagnostici operativi, dettati dalle sempre più stringenti esigenze di oggettività e valutazione quantitativa, ha prodotto una crescente vacuità delle terminologie psicopatologiche, perdendo la possibilità di distinguere qualitativamente esperienze molto simili tra loro. Ciò ha portato ad ampie ricadute sia nel rilevamento di dati epidemiologici, sia sul piano stesso della concettualizzazione dei disturbi mentali, anche in quelle aree in cui si credeva di aver fatto chiarezza con precise categorie nosografiche ed espliciti parametri di valutazione: emblematico il caso dell’enorme eterogeneità interna nella categoria del Disturbo depressivo maggiore. Ma per comprendere il fenomeno della depressione, così difficilmente inscrivibile in un sistema di scale e specificatori costruiti interamente dal linguaggio, è necessario storicizzare il problema analizzando le dinamiche che hanno portato dall’antica melanconica dei poeti all’epidemia depressiva che stiamo vivendo nella postmodernità.
Alla luce dell’attuale crisi nosografica, questo lavoro ambisce a fornire una lettura pluralista della melanconia intesa come patologia depressiva, pur nella sua ambivalenza spesso rintracciata nella sensibilità artistico-culturale dei grandi artisti o pensatori, tentando però di evitare per quanto possibile il termine “depressione” (che ha ormai perso quasi ogni significato clinico) e uscendo dalle diatribe della cosiddetta “grande dicotomia fondamentale”. Il lavoro procederà mediante una suddivisione in due macro-sezioni. Nella prima sezione (Capitolo 1 e Capitolo 2) verrà esposta una disanima epistemologica prima, ad un livello macro, sulle problematiche che intercorrono tra l’uomo e la scienza, e successivamente nel campo specifico della salute mentale, illustrando le ricadute pratiche di questa eterna battaglia sulla nostra disciplina e, in ultima analisi, sugli stessi pazienti; ciò permetterà di delineare alcuni principi fondamentali di una metodologia operativa che non si fermi di fronte all’incompletezza di conoscenza… che non è mai nociva, ma anzi permette il proseguimento dell’indagine in una ricerca che non sarà mai precocemente conclusiva. Nella seconda sezione (Capitolo 3 e Capitolo 4) applicherò questa metodologia all’oggetto dell’indagine, ovvero la condizione melanconica nella postmodernità: prima verranno indagate le origini melanconiche della depressione e le successive letture di questa condizione umana secondo paradigmi opposti, fino ad approdare in quella che è stata definita da Ehrenberg come “la vendetta postuma di Janet su Freud”. A partire da quel momento, che potremmo far coincidere con la pubblicazione della terza edizione del DSM (DSM-III, APA, 1980), il “modello deficitario” della malattia mentale fu sempre più inglobato dal “modello tecnologico” a cui ha sempre aspirato la psichiatria organicista. Successivamente, dopo aver storicizzato il problema rigettando la tentazione di qualche facile riduzionismo (dettato spesso dal prevalere del presupposto cerebrale, da un lato, o del modello psicodinamico, dall’altro), verrà fornita una lettura pluralista della melanconia, che possa attingere da più mappe della conoscenza nella ricerca dei tratti quintessenziali della condizione melanconica.
L’obiettivo sarà quello di far converge il sapere clinico che la psichiatria, la psicoanalisi e la fenomenologia hanno accumulato con la pratica clinica nel corso degli anni in una operazione di analisi della postmodernità secondo categorie e teorizzazioni di processi scaturiti dalle intuizioni psicopatologiche: in una circolare reciprocità di influenze. Mi affido in particolar modo all’intuito fenomenologico e antropologico che ha da sempre accompagnato il ragionamento clinico, nonostante la sua marginalizzazione all’interno della letteratura specialistica, in quanto modalità di riflessione che consente di dare il giusto rilievo alle prospettive metodologiche ed epistemologiche, allontanando per quanto possibile il rischio di riconoscere al soggetto solamente il peso dei fattori biologici o intrapsichici, allargando il campo d’indagine alle strutture-strutturanti dell’esistenza e all’Endon di una determinata epoca storica. Questo modo ideale di procedere è “ricco di potenzialità ma costringe a pagare il prezzo di una gestione complessa, sia nel momento della riflessione teorica e della ricerca, sia nel momento della pratica clinica”. Forse è questo il motivo per cui molto spesso vince la tentazione di rinunciare ad alcuni pezzetti di realtà, per rinchiudersi ognuno nell’ambito che gli è più familiare, come “la genetica, l’inconscio, i core beliefs, l’apprendimento, l’attaccamento, le dinamiche familiari e così via” (Del Corno, 2009, p. 133), con il rischio di dimenticarsi che una mappa non coincide mai con il territorio, ma costituisce sempre una rappresentazione (o modello) parziale della realtà.
I nuclei di verità che emergeranno sui ponti di comunicazione tra diverse mappe del sapere ci consentiranno di vedere sotto una nuova luce quella “tristezza depressiva, [che] si fa mondo circostante, e non è contenuta all’interno della persona” (Gozzetti, 2008, p. 146), così come traspare dai celebri versi di Verlaine:

Il pleure dans mon coeur
Comme il pleut sur la ville;
Quelle est cette langueur
Qui pénètre mon coeur?

Piange nel mio cuore / come piove nella città / Cos’è questo languore / Che penetra nel mio cuore?

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Andrea

Andrea Scavolini è dottore in Psicologia Clinica. Vede l’epistemologia come disciplina fondante in ogni percorso di conoscenza e ripone una particolare attenzione ai rapporti tra l’uomo e la scienza, in questo circolo di reciproche influenze. Nel 2015 fonda il Cratere di Poimandres, che definisce come “blog di democrazia psichica, affinché lo spirito prevalga e ci sia pace (o se non altro meno affettività negativa) sulla terra”. Un luogo in cui il pluralismo delle conoscenze viene messo al servizio dell’uomo travolto dalle turbolenze del mondo postmoderno in cui viviamo.